Padre Prosperino Gallipoli da Montescaglioso:
un caterpillar in Mozambico

di fra Francesco Monticchio

da libro: DALLA PARTE DEGLI ULTIMI – PADRE PROSPERINO IN MOZAMBICO
a cura di ENRICO LUZZATI – Silvio Zamorani Editore - 2009

(2)

 

 

Tempo di creatività: 1972-1974
Col passare del tempo, cominciarono a nascere varie esperienze di evangelizzazione
nelle missioni e di presenza cristiana nelle varie popolazioni. Stimolate
dalla Parola di Dio, le comunità cristiane e non incarnavano il Vangelo
nella realtà, impegnandosi nella produzione di beni e nella riflessione socio-politica
ed ecclesiale sulle condizioni del loro ambiente.
Noi frati, attraverso la conoscenza della lingua locale, riuscivamo a introdurci
nel sacro terreno della cultura locale, nel santuario più recondito
dell’organizzazione familiare, sociale, politica e religiosa delle etnie in cui lavoravamo.
Scambi di notizie e di esperienze ci consentivano di formare un quadro
comparato degli usi e costumi della popolazione e ci rendevano più sicuri della
correttezza delle nostre intuizioni riguardo a questo progetto di evangelizzazione
più integrato, più complesso e più coordinato.
Non fu difficile captare la profonda valenza religiosa delle “culture globali”.
Tutta la vita era permeata e imbevuta della presenza ineffabile di Mulungu
(Dio). Le varie etnie lo avevano incontrato lungo il secolare cammino della loro
esistenza.
Ci dicevano: «Voi ci avete portato le scarpe e noi le chiamiamo con la stessa
parola della vostra lingua; ci avete portato la camicia e noi la chiamiamo camicia!
Ma Mulungu non lo chiamiamo con una parola della vostra lingua. Prima
che voi veniste, noi lo avevamo già trovato! E le cose che Dio vi ha detto nella
vostra religione e che leggete nei vostri libri, Mulungu a noi le ha raccontato
nel cuore!».
I miti e i racconti, i nomi delle persone e istituzioni sociali, le varie attività:
seminare, costruire la nyumba (casa), scavare un tronco per renderlo una mwadia
(canoa), pescare, cacciare, raccogliere, nascere, crescere, ammalarsi, sposarsi,
morire… tutto questo per il popolo bantu ha un senso religioso perché ogni
azione è riempita di significato e resa solida e consistente dalla presenza vicina
e lontana, amica e confortante di Mulungu.
In questo santuario senza costruzioni, in questo sacro terreno senza coordinate
per orientarsi, in una cultura così densa e senza libri, in una religione senza
tempio e nei riti senza paramenti e oggetti sacri… era davvero difficile non
compiere passi falsi!

L’ebbrezza di certe scoperte, anzi la sorpresa del dono e del racconto di se
stessi, quando gli abitanti ci prendevano per mano per farci assistere ai momenti
più caldi degli eventi della loro esistenza, non raramente erano oggetto
delle nostre lunghe conversazioni tra noi e con padre Prosperino, che ci seguiva
passo passo ed era stimolato a conoscere e vivere questa avventura genuinamente
umana e missionaria.
Anche in lui, come in noi, nel silenzio della meditazione del cuore, risuonava
il monito biblico a Mosè che voleva accostarsi con umana curiosità al roveto
ardente: “Mosé, Mosé fermati; togliti i sandali; la terra che tu calpesti è
sacra!”
In visita alle missioni, ogni volta che gli era possibile, anche lui veniva a vivere
esperienze e a fare conoscenze partecipando a riti e cerimonie, incontri e
conversazioni con la gente che ci accoglieva con grande senso di ospitalità.
Nacque una simpatia, una partecipazione diretta, una sorta di innamoramento
e di empatia per cui nulla risparmi di ciò che hai e la gente nulla nasconde
di ciò che possiede.
Tutti insieme cercavamo cammini e soluzioni affinché la vita diventasse più
umana, più vivibile e meno attanagliata dalle necessità primarie.
In tutte le missioni ci trovammo a prendere il cammino della evangelizzazione
integrale, quella della promozione umana, non tanto come “atto di carità”
o di “pietà cristiana”, ma come atto di rispetto per la gente che aveva un
così ampio e profondo deposito umano che ci rendeva solidali e pieni di gratitudine.

Pro diventò l’anima di tutto questo movimento: ci offriva libri, ci forniva le
sue conoscenze, accompagnava le ricerche, faceva da mediatore col vescovo del
tempo, che non riusciva facilmente a comprendere come l’uomo e la sua cultura
fossero la via che Cristo percorreva per raggiungerlo e vivificarlo dall’interno
e non come apparenza dall’esterno.
Non raramente doveva difenderci presso le autorità coloniali insospettite
per la nostra continua presenza nei villaggi e per una evangelizzazione che rendeva
troppo coscienti le persone del loro stato di bisogno e delle cause del sottosviluppo.

Quando scoprì il metodo dell’alfabetizazzione di Paulo Freire e il sistema
per rendere gli uomini coscienti della loro situazione e dei mezzi per uscirne,
Pro sembrava aver scoperto la chiave dello sviluppo integrale dell’uomo.
E aveva ragione.
Fu proprio attraverso questa via che la gente si convinse a dare una dinamica
nuova a quanto già aveva lungamente sperimentato nelle proprie culture e
forme associative, rompendo il circolo vizioso dell’analfabetismo e quindi del
sottosviluppo.
Dappertutto si cercavano i supporti culturali cui agganciare nuovi stimoli
per rompere la staticità che non permetteva di entrare in processi evolutivi senza
disturbare gli equilibri culturali raggiunti.

A Luabo fu l’istituzione culturale del Nomi; a Chinde (una missione sul
delta dello Zambezi), fu il Matugumano un po’ più tardi a Derre, una missione
nel distretto di Morrumbala che conosceva bene Prosperino e i suoi metodi di
lavoro, si scelse la strada del Kuyanjana.
Il nomi di Luabo era una istituzione culturale, una sorta di società di mutuo
aiuto a pagamento per capitalizzare le risorse che poi erano consumate in
una lunga festa che durava fino ad esaurimento scorte, in una grande casa comune
dove uomini e donne, ragazzi e ragazze condividevano tempo, divertimento
e cibo: la sera, i vecchi raccontavano le loro storie per mantenere viva la
tradizione e la cultura. Il nomi aprì la strada alle cooperative con il correttivo
della capitalizzazione e conservazione delle risorse per non cadere ogni anno
nel “mito dell’eterno ritorno” che costringeva la gente a ricominciare sempre
da zero! La catechesi si agganciò appunto al racconto culturale che i vecchi facevano
alle nuove generazioni. Questa fu la strada percorsa da me, da fra Francesco
Monticchio da Campi Salentina, e da fra Fedele Bartolomeo da Cirigliano
per dare un senso globale alla evangelizzazione.

Il matugumano di Chinde, un’altra istituzione culturale formata da anziani
che si riunivano per cercare soluzioni ai problemi e alle difficoltà del loro tempo
e risposte alle nuove sollecitazioni di una società in evoluzione, divenne il
punto di forza per rompere il cerchio del sottosviluppo. A questo movimento
sociale si agganciarono fra Zaccaria Donatelli da Triggiano e fra Camillo
Campanella da Francavilla Fontana per portare avanti un’evangelizzazione che
rispondesse ai bisogni reali della gente. La produzione di beni di consumo delle
cooperative di pesca insieme con la catechesi furono le nuove motivazioni
per camminare insieme.
Il kuyanjana di Derre fu il cammino seguito da fra Fortunato Simone da
Rutigliano e fra Fedele Bartolomeo da Cirigliano per una immersione totale
nella cultura di una zona multietnica e perciò molto ricca di tradizioni e di
simboli culturali. Attraverso la convivenza con la gente e la conoscenza dei riti,
degli usi e costumi, delle tradizioni e della storia dell’occupazione di quel territorio
da parte delle etnie presenti, caddero le barriere della diffidenza dell’altro,
ed essi si lasciarono condurre in mondo ricco e misterioso.

Alla mancanza di libri i locali supplirono ricorrendo alla biblioteca vivente
della saggezza degli akulu amphingo (gli anziani) e così conobbero l’universo
simbolico del mukhuto mundimwa (il grande sacrificio), della empha (la casa),
del mudhi (la famiglia), del nihimo (clan), degli amuikho (i tabù), delle aluku/
nluga (cerimonie dell’iniziazione), e di tutti gli altri eventi della vita. Fu
questo il sentiero che li condusse verso una comunità apparentemente umile e
dimessa, ma ricca di relazioni umane e di simbologie. Una porta aperta attraverso
la quale inserire i nuovi stimoli del Vangelo e quelli del progresso per fecondare
da dentro la vita di quei gruppi umani.
Padre Prosperino partecipava a questo pellegrinaggio spirituale che apriva
nuovi spazi per una evangelizzazione acculturata e una promozione umana che
nasceva “dal di dentro”, nel seno di quella cultura, e dai bisogni di quell’uomo.
Prese quindi per mano tutto questo movimento e gli diede, per così dire,
una strutturazione sociale e religiosa con una empatia straordinaria.
Tutto ciò produsse in Padre Prosperino un cambiamento radicale di mentalità
e di prospettiva. Egli seppe cogliere tutti questi fermenti e tutte queste
intuizioni, conducendoli verso una riflessione pacata e appassionata allo stesso
tempo, per dar corpo e organizzazione alle esperienze e ai cammini nuovi che
si stavano aprendo.

Con lui inventammo le settimane di studio sulla catechesi riuscendo a
coinvolgere tutti, anche gli altri ordini religiosi presenti nella diocesi di Quelimane
e di quelle vicine.
La catechesi aveva lo scopo di formare comunità cristiane autonome ed autosufficienti,
capaci di bastare a se stesse sia per la evangelizzazione sia per
l’autonomia economica ed alimentare.
I naturali animatori di queste comunità diventano i catechisti insieme con
tanti altri uomini e donne, servitori della comunità, impegnati ognuno
nell’animazione di un settore della vita comunitaria.
Il catechista doveva essere liberato dall’impegno scolastico e il professore
esonerato dall’impegno catechetico. L’edificio della scuola avrebbe servito
bambini e adulti per l’alfabetizzazione, mentre la comunità cristiana doveva
avere il suo luogo, la cappella, dove vivere i momenti di culto, di catechesi e di
organizzazione interna della comunità.
Era il tempo della nascita di una evangelizzazione “strana”, per alcuni, perché
tutto si faceva non tanto sotto la copertura tradizionale dell’amore di Dio,
quanto all’insegna dell’uomo, immagine e somiglianza di Dio.
Nei lunghi momenti di preghiera, dopo aver passato giorni a riflettere su
quanto avveniva, non raramente, ci si trovava a pregare sul significato di quanto
è scritto nel vangelo di Matteo: «Signore quando ti abbiamo visto affamato,
nudo, cieco, in carcere o ammalato… e ti abbiamo soccorso?».

Era il tempo della nascita di comunità che avevano voglia e desiderio di uscire
dal sottosviluppo e che scommettevano sull’incognita della componente
“bianca”. Infatti un proverbio della loro saggezza popolare era lì a ricordare loro:
Azungu ndi nyuchi, atapira mbaluma! E cioè: «I bianchi sono api: sono dolci
ma pungono!»
«Ci ruberanno ogni cosa?», si chiedevano, come l’esperienza insegnava loro!
Bisognò che si arrivasse al raccolto e alla conservazione dei prodotti nel loro
villaggio per convincersi che nulla sarebbe stato rubato. E allora a Luabo ci fu
addirittura un processo al “bianco”: «Perché non hai rubato? Chi sei tu? Se sei
un bianco avresti dovuto rubare! Se non rubi… allora la tua pelle è “bianca”,
ma il tuo cuore è “nero”!»
Questo atteggiamento era la conseguenza di una esperienza secolare di difficile
convivenza tra neri e bianchi.
Una volta accertato che non sempre il bianco è un ladro, nacque in loro il
desiderio di conoscere da dove proveniva l’onestà di quel bianco che avevano
davanti. Solo allora aprirono la porta del cuore per tentare di integrare la loro
religione naturale con quella che il bianco leggeva dal suo Libro!
Venne il tempo in cui ci si rese conto che con la sola zappa non si andava
lontano. I gruppi associati in cooperative scrissero lettere per ottenere i trattori.
C’era bisogno di portare i giovani a scuola. C’era bisogno di preparare donne
capaci di far fronte a un pronto soccorso per le immediate necessità di un parto
e di malattie ricorrenti…

Pro capì che era necessario investire tutte le risorse economiche per queste
comunità umane che volevano uscire dalla spirale del sottosviluppo.
L’idea di rendere le missioni complementari tra loro si dimostrò vincente.
La missione di Morrumbala ricevette i ragazzi della scuola media; Luabo,
quelli del ginnasio; Quelimane fu destinata al liceo o altre scuole superiori; la
missione di Inhassunge ricevette nel suo ospedale le donne che per qualche
mese, sotto la guida delle suore, ricevevano i primi elementi per facili interventi
di pronto soccorso. Qualcuna di loro a suo tempo divenne addirittura infermiera.
I trattori furono intestati alle cooperative, così come tutti i mezzi di produzione.
E fu una scelta provvidenziale. Due anni dopo, quando il Frelimo (Fronte
di Liberazione del Mozambico) prese il potere, i nuovi liberatori avrebbero voluto
espropriare la gente dei loro beni.
A Luabo il sindaco si presentò con la polizia armata per prendere i due trattori
e sequestrare i conti in banca o nelle poste, ma la gente difese con le unghie
i propri risparmi e con il corpo i trattori, facendo attorno a essi uno spesso
cordone umano. E i trattori rimasero nelle mani del popolo!
La medesima cosa avvenne nella sede della missione dove temporaneamente
si trovava la trivella per i pozzi artesiani, che Padre Prosperino aveva comprato,
affidata alle cure di fra Giocondo Gaudioso da Bari e intestata al gruppo
degli operai che lavoravano con lui. La trivella aveva permesso di realizzare in
più di cento villaggi un pozzo artesiano dotato di pompa manuale che
garantiva il rifornimento di acqua potabile.
Vibranti, come solo lui sapeva fare, furono le proteste di Prosperino presso
le autorità centrali di Quelimane. Una telefonata dell’amico governatore Bonifácio
Gruveta fece ritirare dalla missione a mani vuote i militari e il sindaco
che, sconfitto, promise battaglia. Ma non tardò molto e fu trasferito a fare
danni altrove.

25 aprile 1974: i venti della libertà
All’alba del 25 aprile del 1974 la Emissora nacional (la radio portoghese)
aprì le sue trasmissioni in Portogallo e nelle colonie con la canzone della libertà:
Grandula villa morena, terra da fraternidade! (Grandula città morena, terra
di fraternità).
Cominciò la grande era della trasformazioni in Portogallo (la rivoluzione
dei garofani) e in tutto l’impero coloniale portoghese.
Nel giro di pochi mesi le colonie (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau,
Capo Verde, São Tomé e Principe, e Timor Est) ottennero la libertà col Trattato
di Lusaka (7 settembre 1974).
Per il Mozambico fu fissata al 25 giugno 1975 la data per la proclamazione
dell’indipendenza.
Prosperino fu irrimediabilmente preso da tutto il fermento di idee e
prospettive che il tempo presente gli offriva. Divenne l’organizzatore e il leader
di un movimento di base per preparare la società e la chiesa ai tempi nuovi che
velocemente si avvicinavano.
Molti pensavano che Padre Prosperino sarebbe stato travolto dal movimento
che si era creato attorno a lui e nella casa dei Cappuccini di Quelimane, dove
confluivano uomini politici, studenti, operai, giornalisti, uomini e donne
che, contagiati da lui, cercavano di dare un volto a quanto bolliva nella pentola
della storia del Mozambico.
Quando da Luabo andavo a Quelimane per i necessari contatti con lui, avvertivo
che la quieta casa dei Cappuccini si era trasformata in una fucina di
pensiero e di ricerca; era un via vai di persone che lo cercavano e con lui riflettevano.
Era il tempo della formazione di nuovi partiti politici che si proponevano
di dare un contributo al movimento di libertà in fermento.

Il 17 settembre ero con lui. Le forze del Frelimo erano in cammino per entrare
pacificamente a Quelimane. Tutta la città era in attesa. Con Pro partecipai
al grande comizio di Bonifácio Gruveta, comandate del fronte della Zambézia.
Il ritorno a casa fu lungo e faticoso a causa della folla che si era riunita a
Quelimane. Animatamente facevamo i nostri commenti su quanto avevamo
ascoltato, immaginando che cosa sarebbe successo da quel giorno in poi a
Quelimane.
Ormai vicini a casa, vedemmo uno strano movimento nel giardino.
«Ma, che cosa succede?» ci domandammo stupiti. Sul cancello quattro
guerrilheiros armati ci bloccarono all’entrata.
«Chi siete?», ci sentimmo gridare in faccia! Poi uno dei quattro disse: «Lasciateli
passare, è Prosperino».

Entrammo. Scendemmo dalla solita e sgangherata jeep, preoccupati e ansiosi
per la presenza di guerrilheiros armati fino ai denti, che cominciavano a
sorriderci. «Non vi preoccupate, entrate», ci dissero.
Sulla porta di casa era già piazzato Bonifácio Gruveta. Ci ricevette con un
sorriso aperto e sereno, e il saluto militare, e disse: «Dopo aver ispezionato la
città, non abbiamo trovato casa più sicura di questa. Perciò siamo venuti ad
accamparci qui, finché non troveremo soluzioni più adeguate. Possiamo accomodarci
nella vostra casa?».
Uno sguardo interrogativo, una scrollatina di spalle e poi un: «Va bene!
Siate i ben venuti!»
E la casa dei frati divenne… un quartier generale!

I più alti quadri del Frelimo, da Alberto Joaquim Chissano (allora ministro
degli esteri e poi presidente della repubblica), a Marcelino dos Santos (l’eterno
numero 2 del partito), fino ad Armando Guebuza, attuale presidente del Mozambico,
passarono dalla casa dei Cappuccini a Quelimane, facevano le loro
riunioni, stabilivano le loro strategie, mangiavano e dormivano in sicurezza.
Nella sua solita ironia, Pro si domandava: «Da quanti anni questi poveri
diavoli non dormono in una casa e non mangiano in un piatto? Fortuna che ci
siamo noi per far vedere loro un po’ di ben di Dio!».
E nacquero amicizie e intese tra i trenta e più guerrilheiros, uomini o donne
che fossero, e noi frati che ci alternavamo per dare una mano nella tragicomica
situazione che si era venuta a creare nella casa madre dei Cappuccini in Mozambico!
Non mancò una lettera di fuoco di un alto funzionario del regime coloniale,
vecchio amico di Prosperino. L’amicizia era diventata odio perché si sentiva
tradito; minacciava un assalto armato alla casa che niente più «aveva di sacro e
di amico!». Padre Prosperino analizzò con Bonifácio la minaccia e chiese che
niente fosse imputato a quella persona in ragione della passata amicizia, perché
proprio per amicizia, loro, i guerrilheiros, erano stati accolti in casa. Pro trattò
il caso in modo che l’uomo potesse ritornare tranquillamente in Portogallo.
Un anno dopo, lo incontrammo in aereo scortato da militari: era stato sorpreso
in Rodesia in un campo di addestramento di contro-rivoluzionari.
L’intervento di Pro presso il comitato centrale del Frelimo gli valse la vita salva
ancora una volta.
I guerrilheiros rimasero in casa per circa 30 giorni, finché non si trasferirono
nella caserma lasciata libera dai militari portoghesi.

Qualche mese dopo, gli echi di questo evento non si erano ancora spenti.
Ecco come padre Walbert Bühlmann, segretario generale delle missioni cappuccine,
in visita alla missione, vide la figura di Padre Prosperino e la casa dei
Capuchinhos di Quelimane:
«Alla periferia di Quelimane si trova la casa dei cappuccini di Puglia, abbastanza
grande, ma nessuno si chiede: “perché tanto grande per poveri frati?”
Tutti sanno che la casa sta aperta a tutti. C’è un movimento continuo, perché
c’è un magnete: Padre Prosperino Gallipoli, superiore regolare dei frati e
animatore di molta gente. Ci vengono i frati… Ci è venuto Bonifácio Gruveta
[…] assieme ad una trentina dei suoi ufficiali […] Ci viene la gente del quartiere
con i suoi problemi, perché Padre Prosperino è il suo consigliere discreto,
il suo animatore instancabile, il suo salvatore in situazioni senza speranza.
Ci vengono un centinaio di studenti, ragazzi e ragazze, cristiani e non cristiani
che formano, sotto la guida di Padre Prosperino, gruppi familiari, vivendo
in comunità con una cassa comune; si radunano la domenica per la celebrazione
eucaristica e si impegnano durante la settimana, assieme allo studio, allo
sviluppo dei quartieri poveri. Sono nucleo di un “comunismo” radicale, volontario,
modello.
Ecco la presenza aggiornata della chiesa missionaria. L’immagine del missionario
con alcuni bambini sotto le palme non è più adeguata! (...)
L’esperienza mostra che tale sforzo per portare frutti deve essere compiuto non
solo da individui, ma da gruppi che sappiano mettersi in riflessione e preghiera
comune. Una bellissima prova: il gruppo dei frati cappuccini del Mozambico
[…]
Sotto la guida di Padre Prosperino, da anni avevano regolari convegni fraterni
[…] hanno acquisito la conoscenza della lingua locale e conquistato
l’amicizia del popolo […] hanno costruito chiese, scuole, ospedali e, più di
tutto, nuclei di comunità cristiane ministeriali capaci di gestire se stesse […]
Così tutti insieme hanno creato le fondamenta per una chiesa capace di essere
presente in uno stato che si chiama socialista […] Da nessuna altra missione
abbiamo ricevuto nella nostra curia generale tanti documenti, testimoni del
processo di rinnovamento, quanti da Padre Prosperino».

Cfr. «Aurora Serafica», anno 47, n. 9, pag. 55.

La presenza dei guerrilheiros in casa, il suo impegno sociale e politico, le
riunioni e le assemblee con tutti quelli che si riunivano dai Capuchinhos, non
distrassero Prosperino dagli impegni di vita in relazione al gruppo dei frati e
alla chiesa.
Con estrema puntigliosità preparò la celebrazione del capitolo attraverso
incontri preliminari e assemblee in cui si analizzavano le complesse trasformazioni
radicali e gli avvenimenti, che rischiavano di disorientare il gruppo missionario
a causa della velocità con cui accadevano. Energicamente, egli condusse
il gruppo a non subire gli eventi, ma ad essere presente e costruttivo attraverso
una proposta cristiana e aggiornata di se stesso e della chiesa.
Qualche volta fra Fedele ed io, analizzando e ordinando quanto scriveva, ci
sentivamo in imbarazzo non sapendo se fosse meglio lasciarlo esplodere come
un vulcano oppure contenere e coordinare le sue idee e proposte.
Certo è che il capitolo (momento esclusivo di riflessione che i frati vivono
all’interno della propria fraternità) del 18-22 novembre, tenutosi a Morrumbala,
divenne un’assemblea aperta ai catechisti, ai delegati delle attività sociali, ai
frati delle altre congregazioni e alle suore.

Dopo gli incontri e i gruppi di studio, Pro sintetizzò in un discorso quanto
era emerso da quella assemblea in cui noi frati eravamo stati solo una minoranza.
Parlava con enfasi e forza, convinto che noi missionari e la chiesa
dovessimo ascoltare le ansie e le speranze di quella società, che dalla rivoluzione
aveva avuto una spinta a lanciarsi verso scelte impreviste.
A suo parere, la rivoluzione mozambicana stava portando numerosi benefici
al popolo. I missionari, che sempre avevano amato questo popolo, dovevano
rallegrarsi e dare il loro contributo con gioia e amore, anche se a volte amareggiati
per le accuse ingiuste lanciate contro di loro dai rivoluzionari.
Il missionario doveva fare di tutto perché la rivoluzione fosse a favore del
popolo e lo aiutasse a vincere l’ignoranza, la fame, l’oppressione, la malattia. I
missionari e la chiesa dovevano inserirsi in quella rivoluzione per dare il
contributo umano necessario a farle imboccare un cammino di rispetto per
l’uomo, di crescita della libertà e di umanizzazione del socialismo scientifico.
Per raggiungere questi risultati, i missionari e la chiesa dovevano spogliarsi
dei privilegi storici acquisiti lungo il tempo; accettare la separazione tra chiesa
e stato; sentire la propria missione come un contributo decisivo al risveglio
delle coscienze.

Come cittadini, i missionari dovevano accettare di inserirsi in attività produttive
per vivere del proprio lavoro; fuori dalle ore di lavoro, dovevano ritrovarsi
come cristiani per comunicare la propria fede, pregare, vivere l’eucaristia,
condividere la parola di Dio perché nessuno si libera da solo, nessuno libera un
altro, ma ci si libera in comunione con gli altri!
Pro era cosciente che ciò comportava uno stravolgimento nella vita di una
famiglia religiosa.
Vivere senza orari, senza strutture fisse, senza punti di riferimento per la vita
comunitaria: tutto ciò sarebbe stato possibile?... era la sua domanda!
La sua era una risposta di fede: la chiesa è un segno di speranza, di una speranza
integrale per l’uomo integrale, essa annunzia la salvezza di Dio all’uomo
nella sua interezza, corpo e anima. Ogni superamento del sottosviluppo, ogni
progresso è un passo verso la realizzazione di questa speranza. Siamo grati a
Dio che ci ha dato da vivere questo momento difficile e bellissimo!
Il capitolo continuò i suoi lavori con l’approvazione di un nuovo progetto
di vita descritto in tre documenti, che segnarono il cammino della missione: il
documento sulla vita dei frati in povertà, quello sulla utilizzazione sociale dei
beni delle missioni e l’ultimo su una nuova metodologia della evangelizzazione
che mirava a formare comunità ministeriali capaci di gestire il proprio cammino
cristiano e la propria autosufficienza economica.
Questi tre documenti segnarono una svolta storica per i frati cappuccini del
Mozambico, per la diocesi di Quelimane e, qualche anno dopo, per la stessa
chiesa nazionale, quando le piccole comunità ministeriali furono recepite come
l’obbiettivo dell’evangelizzazione della chiesa mozambicana (Assemblea nazionale
di Beira, 1977).
A fine capitolo, Pro fu confermato per altri tre anni alla guida del gruppo dei frati
cappuccini in Mozambico.